“E’ solo con il cuore che si può vedere veramente. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
La celebre frase tratta dal Piccolo Principe è la base di partenza per narrarvi questa mattina una storia. Una storia particolare, non di una persona famosa, ma di un luogo, un luogo celato agli occhi dei viterbesi.
I cultori di Saint- Exupery mi perdoneranno se oggi mi allontano un po’ dalla strada da lui tracciata, ma dissento, l’essenziale sarà pure invisibile agli occhi, ma quanto bene può trarre la nostra mente e il nostro corpo dalla visione di qualcosa di bello.
Oggi se avete la compiacenza di seguirmi vi condurrò in un luogo magico, sospeso tra passato e presente, immerso in una bolla atemporale, che aspetta solo di essere visto.
La travagliata storia del convento di San Simone e Giuda è una realtà che pochi a Viterbo conoscono. Per vedere l’ingresso al chiostro vi dovete dirigere lungo via Cardinal Raniero Capocci, al numero 13 fermatevi, siete arrivati. Come non vedete nulla? Lo so, c’è una struttura del 118, ma credetemi siete lì ad un passo. Un altro ingresso, molto anonimo, pare la rimessa di un fabbro, lo potete trovare in Largo Vittoria Colonna. Il cancello, arrugginito dal tempo è lì da anni, si passa e neanche lo si nota, ma, guarda bene sul portale, o su quel che ne rimane, vi sono strane lettere, lettere dell’alfabeto armeno. La traduzione dell’iscrizione è difficile per via delle tante lacune, ma si tratta della celebrazione dell’ospizio dei SS Simone e Giuda, un’istituzione caritatevole dei monaci Armeni guidati da un tal Guglielmo, datata 1310.
Se avete ancora un attimo di tempo vi racconto brevemente le vicende di quel luogo.
Nel 1242 l’imperatore Federico II assediò Viterbo, anche se i viterbesi si prodigarono in tutti i modi per respingere un tal prepotente come egli era, dovettero soccombere. Il prepotente in questione poi decise di farsi costruire una bella dimora, pressapoco vicino a porta della Verità, quando poi il castello non servì più, andò in malora e fu per questo che il Cardinal Capocci ordinò la sua demolizione. Come spesso accade oggi, figuratevi nel passato, molti si misero in fila davanti al palazzo del Cardinale per avere il possesso di quel terreno.
I più fortunati furono i monaci Romeni di San Basilio che intitolarono la chiesa ai due santi, Simone e Giuda , per l’appunto.
Nel 1445 vennero i frati Gesuati, ma anch’essi dopo 22 anni se ne andarono.
Fu ai tempi della predicazione di San Bernardino, attorno al 1426, che molte donne spinte dai loro parenti, non prendiamoci in giro con la storiella del pentimento per le loro vanità, si decisero, o le fecero decidere, di ritirarsi a vita privata abbracciando la regola del terzo ordine francescano.
Il papa Sisto IV, anch’egli francescano, diede a queste pie donne, che monache non erano, l’uso del monastero, ma anche in questa occasione tutto si sciolse.
Lo sfortunato monastero fu lasciato al suo destino.
Dopo tante altre occupazioni, nel 1915, le ultime monache furono fatte sloggiare in malo modo, esse si ritirarono a Vitorchiano, ma dato che le loro finanze e si dice anche la loro dispensa fosse più pulita di un’anima del Paradiso, per pagare il trasloco vendettero il coro, le campane e altre suppellettili.
Divenne poi un ospizio dei Vecchi di San Simone, chiuso nel 1995.
La storia è stata oggi un po’ prolissa, ma “Vogliate bene a chi l’ha scritta e un pochino anche a chi l’ha pensata” e soprattutto ” Se invece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta” (A. Manzoni)
Foto di Mauro Galeotti