“Turista è chi passa senza carico né direzione. Camminatore chi ha preso lo zaino e marcia. Pellegrino chi, oltre a cercare, sa inginocchiarsi quando è necessario”. San Riccardo.
Anno domini 1299, Viterbo.
Un vento fastidioso fece alzare il mantello a Messer Pietro Amedei, o come tutti lo chiamavano Iohannis Amidei de Viterbio, notaro. Tra pochi giorni sarebbe stato Natale, un Natale freddo quell’anno, un freddo che gelava le ossa e faceva rabbrividire i poveri accovacciati vicino alla Chiesa di San Lorenzo. Una notizia era giunta in Viterbo in quei giorni, Ser Amedei l’aveva sentita nel suo studio notarile, lì le notizie erano di prima mano, mica come quelle che riportava la sua sguattera dal mercato, lei molte volte ciarlava senza motivo. Sì dicevamo della notizia. Una gran massa di gente era venuta a sapere che esisteva una leggendaria “Indulgenza Plenaria” che si sarebbe ottenuta la notte del capodanno del secolo nuovo. Il papa, papa Bonifacio VIII, né i tanti preti a Roma sapevano di questa usanza, ma si diceva che tutti coloro che si fossero recati a Roma avrebbero avuto lavati via, come se nel Tevere una povera lavandaia avesse sbiancato cenci, tutti i peccati. Solo il 22 febbraio del 1300 (1299 per l’antico computo degli anni) il papa, che sarà anche stato il perfido nemico del mio idolo Dante, ma uomo di grande ingegno, promosse il Giubileo. Soldi a palate per le casse pontificie, ma sorvoliamo.
Messer Amedei, accostandosi il mantello, in cuor suo pensava che di peccati non ne aveva alcuno. Aveva forse lui ammazzato? Aveva forse mancato alle funzioni religiose? Non aveva fatto limosine in quell’anno? Forse poche, ma le aveva fatte, pensò.
Tutti i “Romei” o pellegrini dovevano giungere a Roma, prima però dovevano purificarsi, riappacificarsi con i loro vicini, chiedere perdono per i misfatti, pagare tutti i debiti, fare testamento ed andare dal loro padre confessore. Giunti a Roma, disposti su due file sul ponte Sant’Angelo, sarebbero poi giunti nelle basiliche Vaticane per il perdono.
Messer Amedei sapeva, lui era istruito mica come la serva, che da Viterbo si poteva giungere a Roma attraverso un’antica via che collegava, e collega ancora, Canterbury, in Inghilterra, e Roma. La Francigena . Una gran massa di viterbesi, non tutte persone raccomandabili, se guardava attentamente nel mucchio poteva riconoscere anche qualche barattiere, qualche ladruncolo in cerca di polli da spennare, qualche furfantello che con l’occasione si allontanava da Viterbo, l’amante della tal signora, di cui non è bene ricordare il nome, non per lei, che lo sfizio se l’era tolto, ma per il povero marito.
Quell’anno partirono molti pellegrini da Viterbo, con cappelli in testa, bastoni ricurvi, distintivi in bella mostra, non dovevano essere anonimi, ma tutti dovevano sapere che andavano verso la purificazione. Nelle bisacce portavano fagioli, ceci, cicerchie, un pezzo di pane che presto sarebbe diventato secco, un fiasco di vino, meglio se rosso, l’acqua poteva essere impura, meglio la sicurezza dell’alcool. Ai piedi le scarpe migliori, le fasce strette, per non far venire le fastidiose vesciche, e nel cuore la speranza di tornare presto a Viterbo puliti e lindi.
(La storia contiene tutti elementi storici reali, (nomi, luoghi ed usanze), è stata da me tuttavia romanzata, ma verosimile)