Tebaldo era contento quel giorno. Sentiva nelle narici filtrare l’aria pizzicante e fresca della primavera che riusciva ad alleviargli i dolori alle stanche ossa.

Il lavoro di mezzadro per le campagne di Castel d’Asso era faticoso e suo padre glielo aveva sempre detto che “la terra è bassa”; Tebaldo era però pure intelligente e quindi, messi da parte pochi soldi, era riuscito a mettere a contratto quattro o cinque disperati che facessero il lavoro sporco per lui.

Li pagava due sozze lire e li nutriva quanto bastava per sostentarli e farli lavorare per arricchirlo.Li riteneva poco altro che feccia; se poi qualcuno tirava le cuoia poco male, erano facilmente sostituibili.Quel giorno di brillante primavera comunque Tebaldo stava andando con i suoi servitori verso la città di Viterbo per partecipare al mercato e cercare di arricchirsi speculando sul prezzo delle primizie. I viterbesi erano stupidi, avrebbero pagato qualsiasi cifra per le sue belle fragole.

Sul cammino notò che i suoi erano un po’ irrequieti, confabulavano bisbigliando e si guardavano di sottecchi, come se fossero particolarmente felici di partecipare al mercato quel giorno. “Bestie immonde che non siete altro” pensò l’avido campagnolo.Arrivati in una delle piazze principali della città fece preparare il banchetto e, tra ingiurie e bestemmie, supervisionò il lavoro di quei disperati.

Dopo l’ennesimo improperio però vide qualcosa cambiare nello sguardo del più forzuto dei suoi, una rabbia cieca gli brillò negli occhi ed iniziò ad incitare i compagni.

Presero tutti a correre come pazzi verso la via del Corso sotto lo sguardo stupefatto di Tebaldo terrorizzato. Non capiva cosa facessero, fatto sta che quelli che lui considerava schiavi superarono l’incrocio con Via Mazzini e si fermarono di colpo, quasi aspettandolo. Meravigliato ma furioso per la defezione prese la frusta per andarli a riacciuffare e suonargliele quattro. “Bestie immonde!” pensava.Preso il più piccolo per un orecchio, glielo torse fortissimo facendolo urlare sotto gli occhi si tutta la piazza.Alla vista di quello scempio i viterbesi insorsero come un unico corpo però: l’uomo violento e meschino non poteva vantare più nessun diritto su quei poveri disgraziati che vedeva come schiavi. Superata la Porta Sonsa a Viterbo si era liberi.Stupido Tebaldo, che fa il mercato senza conoscere le regole del posto. Fu processato per le violenze perpetrate e incarcerato.

“Bestia immonda” pensarono tutti.

Oggi vi abbiamo voluto raccontare, inventando tutto ovviamente, la storia della Porta Sonsa una delle più sconosciute della nostra città.Si tratta di una porta antichissima davanti alla quale passate ogni volta che vi concedete di fare shopping al Corso ma che nessuno, se non pochi amanti, conoscono; si trova infatti proprio a ridosso di Via Mazzini, nei secoli è stata chiusa ma rimane ancora ad epigrafe qualche parola a ricordarci il significato che avesse: “MI CHIAMO SONSA, PORTA DI VITERBO LA SPLENDIDAGRANDE IL MIO NOME, ETERNI I MIEI PRIVILEGICHIUNQUE SIA GRAVATO DA CONDIZIONE SERVILESE MIO CITTADINO SI FACCIA, SIA CONSIDERATO UOMO LIBERO”.

La porta divideva infatti il centro cittadino dal fiumiciattolo Sonsa -che oggi conoscerete come Urcionio- e per entrare nel cuore della città si doveva attraversarla; era il 1095 non l’altro ieri di certo. Enrico IV, imperatore e figlio di Federico Barbarossa, aveva concesso qualcosa di enorme alla città di Viterbo ovverosia che qualsiasi Viterbese che aveva qualche forma di servitù nei confronti di un altro se passava sotto questa sarebbe stato libero.

Mica male nell’Italia di 10 secoli fa, quando di diritti umani non se ne conosceva quasi esistenza.

Anonimo

Scritto da:

Viola Vagnoni

Nella vita vorrei fare tre cose: dormire, mangiare e vedere/leggere fiction.
Se però mi trovate qui vuol dire che ne ho aggiunta una quarta ovverosia scrivicchiare.
Mi pare lapalissiano che non volevo farlo ma la vita è per la maggior parte composta da cose che non si vogliono fare.
Ci sono poi state anche altre aggiunte fastidiose alla sacra triade: una laurea in filologia moderna, un lavoro a tempo pieno, una casa da gestire (male), la fantasticheria buffa di voler fare la professorona.
Ma chi me lo fa fare di alzarmi la mattina, guardate.