Piroide avvertiva la collera montargli dentro come fa un cavallone durante la burrasca.
Gli fluiva nelle fibre muscolari, metteva in fibrillazione ogni sua cellula, il sangue s’era mutato in ira e cieco irrorava gli organi si mescidava poi con l’ossigeno nei polmoni e usciva condensata in vapore lattescente dalle froge dilatate. Fremeva, voleva uscire, andarsene da quello speco oscuro, liberarsi da quell’oppressione, morire nel farlo. Cercava di ammansire i nervi immaginandosi libero nella natura, animale purosangue a cui è permesso correre a perdifiato, sentire bruciare i polmoni per la fatica, i muscoli tesi per lo sforzo atletico. Mettere in moto il corpo per far cessare il rutilante moto dei pensieri.
Ma le sue elucubrazioni non sembravano assolutamente condividere i suoi auspici: continuavano inesorabili, vorticavano dentro le pareti della sua scatola cranica. Si macerava nei ricordi, Piroide.
Il vestigio di un passato che avrebbe voluto essere anche il suo presente lo tormentava; ecco perché il suo aguzzino lo aveva rinchiuso da solo in quella grotta umettata e fosca a farlo infradiciare prigioniero; non della nuda terra ma della sua stessa mente. “Le sofferenze più atroci sono quelle che ci infliggiamo da soli” pensò sconsolato. Ormai sopraffatto dalla vigorosa potenza delle reminiscenze decise che forse abbandonarsi ad esse e non combatterle come un toro imbestialito potesse alleviargli lo spasimo…
In quella che ormai era un’altra vita Piroide sapeva di essere il più fedele dei servitori di Akesios, che pure di iloti e adoratori ne aveva a bizzeffe: in massa si rivolgevano a lui per chiederne la benevolenza ed i favori; il suo ascendente ed il suo potere sulle genti erano così forti che molti lo veneravano come si farebbe
con un dio, dedicandogli edifici, vie, piazze, intere città. Anche Piroide, in verità, percepiva di nutrire una devozione sproporzionata per il suo kektemenos. Lo amava di un amore tenero, rispettoso, molto discreto. Mai l’avrebbe però reso manifesto, mai. Questo lo sapeva come sapeva che se fosse entrato in acqua ne sarebbe uscito bagnato.
Era complesso poi per lui definire questo sentimento; seppure si leggesse dentro molto -troppo- spesso non comprendeva se ciò che provava fosse frutto di un innamoramento fulminante germogliato anni prima oppure se il suo sentire fosse cresciuto giorno dopo giorno, cautamente, figlio nato dalla riconoscenza che sentiva di dovergli.
Molti anni prima di diventare quest’essere stipato di livore Piroide era solamente un reietto, emarginato finanche dalla sua famiglia che aveva sempre disprezzato quei colori corvini che lo bollavano come il frutto del tradimento materno e quel temperamento focoso causa di cecità quando l’idrofobia si impadroniva del suo essere. Quanto aveva odiato i giorni passati ad osservare alla chetichella -attraverso le imposte- i didaskaloi reclutati per affinare le qualità dei fratelli; all’infuori delle pareti dell’ambiente dentro il quale si rinserrava udiva gli ordini che venivano urlati loro, poveri miserabili obbligati a seguire rigidamente la disciplina imposta da quei viscidi istruttori. Lui era sì, isolato nel suo recinto ma almeno era libero di essere come preferiva, senza dover sottostare alle trasformazioni intimate dall’autorità padronale che voleva per tutti i componenti della famiglia il migliore degli addestramenti per perseguire quell’eccellenza che da sempre distingueva la loro stirpe. Il suo era un lignaggio importante dal quale avevano voluto estirparlo come un’erba nociva e lui se l’era lasciato fare di buon grado: per questo il proprio spirito indomito gli aveva sempre detto di non voler avere nulla a che fare con quegli asserviti dei suoi parenti. Se non lo volevano allora nemmeno lui avrebbe bramato la loro amorevolezza.
Poi arrivò il giorno che cambiò il corso della sua vita, per sempre. Riusciva a rivederlo dietro il cristallo dei suoi occhi; lo faceva spesso, in verità: rallentava o velocizzava a suo piacimento, grazie alla forza della sua mente, gli accadimenti di quella giornata. Da quel dì in cui tutto mutò era diventata una deliziosa abitudine rimembrare la giornata più bella della sua vita e gustarsela con concupiscente lentezza come fanno i ricchi quando hanno davanti il loro piatto prediletto e sanno che quel pasto non sarà l’ultimo prima di sapere quando si potrà rimangiare.
Senza foga il Piroide prigioniero della caverna rivide il sé stesso nel camerone dove s’era confinato: era buio e c’era un acre fetore di marcescenza; da molto tempo nessuno si preoccupava di pulire. Coricato nel suo giaciglio, giovane e fiero, temporeggiava nell’attesa di morire. D’un tratto però una lama di luce gli ferì un occhio; qualche disgraziato doveva aver scostato la porta; il nitore del sole di giugno esplose nello stanzone lurido smascherando il corpo smunto del suo unico abitante resosi ormai poco di più di una chiazza di un polveroso nero profondo, così nero che la luce sembrava dissolversi in esso, catturata magneticamente e ormai carcerata. Che pena si faceva quando nei suoi ricordi si vedeva così derelitto!
Allora colui che aveva spalancato la porta parlò e gli disse che lo avrebbe dovuto seguire, se lo sarebbe portato via di lì, non era nel suo fato spirare a poco a poco nel degrado del disamore. E così quel giorno il giovane Piroide conobbe Akesios, nel dolore lacerante del riverbero del sole che dopo troppo tempo si scontra col cristallino di un occhio aduso all’oscurità.
Nelle settimane successive, grazie alle attenzioni e alla tenerezza che il nuovo padrone gli riservava, la sua chioma d’ebano ridivenne smagliante, i muscoli immoti tornarono vigorosi, le ossa gracili delle colonne marmoree per sostenere gli sforzi richiesti, il cuore pompava con veemenza, la vita -da superfluo vezzo- si rifece degna. Tutto grazie ad Akesios e alla sua magnanimità, Akesios che aveva scelto una carcassa dentro la quale, inun’ardua semplicità, aveva insufflato uno scopo. E tanto era bastato per ridestarsi dal torpore dell’abbandono.
Da quel giorno lontano anni Piroide non aveva lasciato un giorno il suo salvatore e, seguiti anche dal compagno Eoo, uscivano tutti i giorni poco prima che albeggiasse per svolgere i propri doveri e poi rientrare nell’adorata dimora immediatamente dopo l’imbrunire. Era una vita semplice, meticolosamente routiniera ma appagante. Quanto gli occorreva per essere felice: attenersi alle regole date dal suo liberatore, vivere in concordia con Eoo e lasciar sbiadire i giorni della sofferenza.
Un po’ detestava Eoo; lo tollerava perché sapeva che un odio manifesto avrebbe crucciato Akesios e quindi ben si guardava dal comportarsi meschinamente nei suoi confronti. Però quell’aria di perfezione abbacinante che lo cingeva e quei modi affettati ma elegantemente garbati lo destabilizzavano molto. Non capiva con quale criterio si fosse scelto di farli stare gomito a gomito, loro che erano due opposti: uno nero come la pece, l’altro bianco come la neve appena fioccata; uno focoso e sanguigno, l’altro pacato e bonario; uno tendente alla malinconia, l’altro proiettato verso il futuro; uno ombroso ed inibito, l’altro vivace ed estroverso. Dopo molto lambiccarsi Piroide decise che probabilmente dietro un accostamento del genere doveva esserci una ragione ben precisa: il padrone non sbagliava mai e sicuramente li aveva così appaiati per far sì che potessero apprendere e migliorare vicendevolmente ciò che percepivano come mancanze o difetti del carattere. Certo è che lui provò con tutte le forze ad accogliere Eoo come un fratello ma coi suoi fratelli s’era sempre odiato e sentiva che quella era una storia destinata a ripetersi. Nel silenzio dell’amore che lo connetteva ad Akesios continuò a sopportare l’esistenza del nemico trattandolo come il migliore dei compagni. Chissà però se Eoo nutriva le sue stesse convinzioni ma anche lui stringeva i denti per rispetto del padrone. Chissà.
La consuetudine rodata dei loro doveri fece passare speditamente gli anni; Piroide nemmeno se ne accorse o certamente sarebbe meglio dire che percepì il trascorrere del tempo ma in modo accelerato, come quando si guarda un’aquila che cala a picco sulla preda e non sai dire se c’è poi differenza tra il momento nel quale si librava in cielo e quello in cui stinge la sciagurata vittima tra gli artigli. Un movimento troppo veloce per essere apprezzato ad occhio nudo. Si sentiva comunque ancora al pieno delle forze, non era più giovane ma l’esperienza acquisita nella sua mansione eternamente identica ben sopperiva ai fastidi dell’età. Soffriva costantemente comunque il paragone con Eoo, per il quale il tempo sembrava trascorrere decelerato.
Uscivano prima che albeggiasse, rientravano appena dopo l’imbrunire. Così da sempre. Sperava per sempre. L’inverno era seguito dalla primavera, poi dall’estate che anticipava l’autunno e poi di nuovo inverno. Un cerchio perfetto che aiutava a scandire questa corsa a perdifiato che faceva sentire Piroide sempre più spossato, indolente. Il corpo non rispondeva più bene, neppure l’esperienza lo aiutava più. Rincasare dopo il tramonto era un sollievo, dormire una tortura sapendo che dopo poche ore tutto sarebbe iniziato di nuovo.
Poco dopo l’inizio dell’ennesimo autunno, col sole ormai nascosto dietro l’orizzonte, decise col cuore rotto di rendere manifesta questa sua fiacchezza al padrone. Ne parlò ad Akesios con sommo imbarazzo fermandolo in mezzo alla corte della masseria in cui vivevano, appena prima di entrarvi per rifocillarsi. Il padrone si mostrò come sempre amabile, lo rassicurò dicendogli che lui non era il suo lavoro e che aveva già riflettuto sul fatto di farlo smettere di lì a poco e che avrebbe potuto vivere nella loro magione libero da ogni dovere, godendosi l’amicizia di colui che così ottimamente aveva servito. Dormire quella notte fu una benedizione, da tempo la sua mente non era così scevra di pensieri. Con le forze restituitegli da questa magnifica novità il lavoro si alleggerì, lo affrontò di nuovo con l’entusiasmo dei primi anni e sebbene la stanchezza non mancasse di arrivare (semprepiù velocemente) la sopportava di buon grado conscio che quelle fossero le ultime fatiche per una vita futura meno sacrificata.
La stagione si apprestava a concludersi, già il Maestrale impetuoso furoreggiava per annunciare l’inverno e la natura era ormai temporaneamente morta in attesa di risorgere. Piroide, nel buio della notte, si alzò per apprestare i finimenti ed iniziare la giornata quand’ecco arrivare Eoo accompagnato da uno sconosciuto. Quel tale gli venne presentato come Etone, colui che l’avrebbe sostituito. Era una creatura simile a lui, anch’esso nero come il carbone e dalla muscolatura guizzante sotto la pelle tesa; gli occhi erano molto diversi invece: lucidi e nitidi grazie all’assenza di preoccupazioni. La rabbia, sua conoscenza veterana che ormai credeva sopita, gli deflagrò dentro con un’energia ignota prima di allora. Non poteva davvero essere stato vittima di un così bieco tradimento che lo vedeva sostituito come se nulla prima fosse esistito e, al di sopra di tutto, gli era insostenibile l’idea che sarebbe stato rimpiazzato da un suo succedaneo prima di Eoo, che aveva la sua stessa età. Dissimulò speditamente questo malessere appena vide sopraggiungere il padrone e quel giorno, la prima volta dopo un’epoca, uscirono in quattro cosicché Etone potesse apprendere gli incarichi.
Piroide decise che non si sarebbe lasciato surrogare senza prima aver dato prova del suo valore che sapeva renderlo di fatto insuperabile.
Aspettò il nuovo giorno per mettere in atto in piano che aveva scrupolosamente orchestrato nell’insonne nottetempo: uscirono dalle stalle, la biga gli venne ben fissata ai finimenti; con una pressione portentosa delle ali spiccarono il volo lui ed Eoo, Akesion tratteneva come al solito fermamente le redini strette nel morso di loro due. Il sole che si trascinavano dietro era più che mai pesante ma comunque più leggero del suo cuore, consapevole di quello che avrebbe dovuto compiere di lì a poco.
Di sorpresa scartò sulla sinistra, interrompendo la linea dritta che tratteggiavano ogni giorno sulla volta celeste. Usò tutta l’energia che aveva nelle ali corvine poste sul groppone per spingere verso il basso, in una discesa in picchiata che facesse precipitare la biga e con essa il sole. Lottò contro la potenza alare di Eoo che faceva trazione contraria alla sua per tentare di riportare il carro alla consueta altezza. Fu una disputa straziante quella per la perdita di quota. La battaglia del bianco contro il nero, della diligenza di chi sa quanto vale contro la ribellione di chi si è visto svilire il valore sul quale aveva fondato una nuova vita, di chi vuole difendere la propria posizione contro chi è disinteressato alla posizione perché sa già di averla persa. Fu lì, in quei momenti concitati nei quali schiumando dalla bocca sforzava tutte le sue membra per far scapicollare il sole, che Piroide realizzò di essere solo una cavalcatura, un mezzo e non un fine, un motore inanimato e non una mente fatta di pulsante vitalità. Odiò Apollo con la stessa veemenza con la quale l’aveva amato.
Ma comunque l’aveva amato e fu per questo -prima ancora di aver realizzato che avrebbe vinto la sfida con Eoo facendoli schiantare al suolo- che con un colpo di reni riguadagnò un minimo di altitudine per poi dolcemente librarsi nell’aria e dolcemente planare a terra. Sostenne il peso del carro tutto da solo, per provare quanto ancora avesse da offrire; Eoo nient’altro che una squallida zavorra. Il padrone scese dalla biga sgomento per il tanto terrore ma appena ripresosi cominciò a piangere copiosamente e urlare al cielo maledicendo con tutto il fiato che gli era disponibile Piroide per le sue scelte scriteriate e per non aver capito che non aveva nulla da dimostrare. Nemmeno una volta durante quello sfogo atroce discusse il fatto di aver operato -lui- delle scelte che avevano martoriato l’animo delicatamente sensibile dell’animale. Il sole tramontò prima di sempre in quel freddo pomeriggio di dicembre.
Non aveva osteggiato i ricordi alla fine; li aveva bensì fatti fluire senza posa: il giorno più gioioso della sua vita rincorso da quello più infelice. Due tappe capitali del sentiero che aveva tracciato esso stesso per condursi dov’era adesso a morire. Imprigionato dal divo che gli aveva dato in un giorno qualsiasi uno scopo e, sempre in un giorno qualsiasi, glielo aveva strappato via.
Ribolliva di così tante emozioni e sentimenti diversi che dargli ordine in testa era complesso tanto quanto quietarsi. L’odio si accompagnava all’amore, l’ira alla frustrazione, la tristezza che rende immoti alla smania cinetica di morire. Voleva correre e voleva volare, sapere che le ali si sarebbero presto rattrappite in quello spazio asfittico lo feriva tanto quanto il resto. Infine convenne che sarebbe tornato ad essere il carcame che era già stato una volta. Poco male; si era rassegnato una volta a dover morire abbandonato da dio, poteva farlo di nuovo; così decise nell’oscurità della grotta che sarebbe stata la sua sepoltura. Lentamente incenerirsi ma senza mai domare la combustione.
Sopra il suo capo, in superficie, mentre contemplava addolorato il paesaggio brullo della Tuscia nel quale aveva deciso di imprigionare il suo compagno più leale, Apollo notò che l’acqua della polla posta sulla sommità del carcere ctonio iniziava a sobbollire.