Stremato dal pianto, il bambino si era finalmente addormentato. Alla fine si era fatto bastare le poche gocce di latte che Adele era riuscita a spremersi dal seno. Con gli occhi gonfi, la madre lo rimirava alla luce della piccola candela, infagottato nelle fasce e nella coperta lisa. Poco più in là, altri due bambini smunti dormivano, accoccolati vicino al padre. Erano così belli, i suoi figli! E quanto avrebbe voluto per loro un presente migliore di questo! Ma se il presente era quello che era, avrebbe provato a regalargli un futuro diverso, al riparo dalla miseria e dalla fame. Soprattutto al suo ultimo piccolo, nato da due giorni.
Il padre dei suoi figli la guardò fissa negli occhi straziato, come per chiederle se all’ultimo momento avesse cambiato idea. Per tutta risposta, Adele si alzò stancamente dalla sedia, e si avvicinò alla culla del bimbo. Scostò con delicatezza la copertina, e tra le fasce nascose mezza medaglietta di latta, con l’immagine di santa Rosa. Poi lo prese in braccio, e aspirò forte il suo odore dolce di neonato. Per un attimo, la sua decisione vacillò. Ma fu solo un attimo. Si coprì la testa con uno scialle, e si incamminò col bimbo nella notte fredda, che vestiva di nero doloroso i miseri vicoli.
Il piccolo dormiva tranquillo, e Adele assorbiva il suo calore con ogni centimetro del suo corpo. Arrivata di fronte al grande palazzo, esitò. Non una luce dalle finestre a feritoia. Non un suono. Sperò con tutto il cuore che al di là del portone ci fosse qualcuno in grado di occuparsi del suo piccolo. Si avvicinò alla buia apertura della ruota, lo strinse un’ultima volta e lo appoggiò delicatamente nel piccolo giaciglio imbottito che era all’interno. Ruotò la bussola, e suonò risoluta il campanello. Poi fuggì via nella notte, sentendosi una malvivente, sentendosi la peggiore tra le madri. Tra le dita stringeva l’altra metà della medaglietta, come un talismano.
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Oltrepassando porta San Pietro a Viterbo, sulla destra, si erge un maestoso palazzo che oggi è di proprietà del Comune, e che ospita sedi di associazioni culturali. In passato è stato istituto di assistenza per l’infanzia della provincia di Viterbo, e ancora prima brefotrofio. Ma i meno giovani lo ricorderanno come Ospizio degli Esposti. Chi erano mai costoro? Gli esposti erano i bambini indesiderati, figli illegittimi o nati da famiglie troppo povere per poterli sfamare, che venivano per questo abbandonati all’Ospizio. Molti genitori vi ricorrevano nei momenti di grave difficoltà economica, per garantire loro un riparo dalla povertà. O vi lasciavano i frutti di relazioni clandestine o proibite, salvando se stessi e i piccoli dalla vergogna.
Fino al 1730, a Viterbo e nelle zone limitrofe non esisteva nessuna struttura in grado di accogliere questi bambini. L’orfanotrofio più vicino era quello annesso all’ospedale di Santo Spirito, a Roma, e chi voleva disfarsi di una nascita indesiderata doveva sobbarcarsi un viaggio lungo giorni, durante il quale i neonati erano trasportati in canestri ed esposti al freddo e alla fame. Le madri partivano di notte, anche d’inverno, confidando di trovare qualcuno per strada che le potesse sfamare. Ben pochi bambini riuscivano ad arrivare vivi e sani alle soglie del brefotrofio romano!
Per questo nel 1738 fu creata la struttura viterbese, per evitare i gravi disagi del trasporto fino a Roma, e per provare ad accrescere la speranza di vita dei bambini abbandonati nell’intera provincia. Accanto al portone dell’Ospizio vi era la ruota, che era una bussola di legno cilindrica, divisa in due parti chiuse ciascuna da uno sportello. Le madri o chi per loro introducevano il bambino nello sportello esterno, e suonavano l’apposito campanello, per avvertire chi di dovere di raccogliere il neonato aprendo lo sportello interno. Prima di abbandonarlo, i genitori nascondevano tra le fasce biglietti, immagini sacre o medagliette, spesso tagliate a metà. L’altra metà rimaneva in possesso dei genitori, molti dei quali speravano di poterla ricomporre di nuovo, rivedendo i loro figli in futuro. Come la madre del nostro racconto.
Buongiorno Donatella
Sto scrivendo in merito di questo articolo. Mi chiedevo se potesse sapere se nel 1950 l’orfanotrofio/convento? era ancora un luogo dove le madri non sposate davano alla luce i loro figli. Chiedo questo perché penso (comunque non sono sicura) che mia madre risiedesse lì e diede alla luce il suo primo figlio nell’agosto del 1951 a Viterbo. E se per caso è successo così, i documenti sono disponibili al pubblico perché mi piacerebbe avere i documenti di mia madre del tempo trascorso lì. Qualsiasi informazione che potreste fornire sarebbe molto apprezzata. Scrivo dal Canada e la mia prima lingua è l’inglese. La ringrazio molto. Jenny
Buongiorno Jenny, scusi il ritardo nella risposta. Ho girato la sua richiesta di informazioni ad una persona che potrebbe saperne più di me. Non appena ho la risposta le faccio sapere. Intanto, grazie per seguirci.