Il tempo ha graffiato la pelle del mio volto come un gatto arrabbiato. Ma a me piacciono i cani, non i gatti, anzi mi piace il mio Ràvele, che mi fa le feste e mi segue ovunque, anche quella volta all’ospedale, quando sono stata ricoverata. La mattina andiamo a comprare la pizza con la mortadella e lui scodinzola contento, perché è un birbante e sa che mi ruberà il boccone migliore.

Ràvele mi segue anche quando vado a cercare le bambole tra la roba che la gente butta. Ecco, mi piacciono i cani e le bambole. La gente mi piace di meno. Sto bene da sola in quella che qualcuno chiama grotta. Non è una grotta: è casa mia. E non me la deve toccare nessuno.

Per vivere mi basta poco. Prendo il mio carrettino e vado a raccogliere la legna. O vado a fare la cicoria nei prati. Non sto mai ferma. Il pomeriggio vado al Corso, quando c’è il passeggio delle signore per bene, tutte acchittate. Non vado per chiedere l’elemosina: io non voglio la carità di nessuno. Vendo i mazzolini di violette che ho raccolto al mattino. Alcune signore sono buone con me, e mi danno quanto chiedo con un sorriso. Sanno che per raccoglierle ho sfidato rovi e ortica. Altre mi guardano dall’alto in basso. Guardano i miei vestiti, il mio cappellino, e scuotono schifate la testa.

La Caterinaccia, mi chiamano, come se fossi cattiva, come fossi da scansare. Disprezzano chi preferisce la compagnia di cani e bambole. Ma i cani e le bambole non tradiscono, sapete? Loro sanno andare oltre gli stracci e guardare dentro il mio cuore. E vedono che non c’è cattiveria, soltanto dignità.

Io sono libera, vagabonda e fiera.
Mi chiamo Caterina.

Giovanna Pannega, detta la “Caterinaccia”, era un personaggio caratteristico della Viterbo dell’immediato dopoguerra. Viveva in una grotta fuori porta Faul, circondata dalle bambole che aveva raccolto qua e là, insieme al suo inseparabile cane Raul, che lei chiamava “Ràvele”. I viterbesi si erano abituati a vederla girare per le vie della città, intenta ad offrire i suoi mazzolini di violette e fiori di campo. Rifiutò più volte la proposta di lasciare la sua povera abitazione per andare in una casa popolare. Non avrebbe avuto i soldi per pagare l’affitto, ma soprattutto non avrebbe mai rinunciato alla sua libertà. La sua eredità spirituale fu raccolta dal figlio Alfio Pannega. Ma di lui parleremo un’altra volta. Oggi abbiamo voluto rendere omaggio a una figura che rimane scolpita nel cuore dei viterbesi di una certa età, e che vorremmo non fosse dimenticata.

La foto è tratta dal libro “Pianoscarano: uomini, cose ed usanze di una Viterbo che passa” di Salvatore Del Ciuco.

Anonimo

Scritto da:

Donatella Agostini

Imparare cose nuove è il mio filo conduttore, darmi sempre nuovi obiettivi la mia caratteristica fondamentale. Valorizzare la terra in cui vivo è il mio progetto attuale.