È il 13 marzo del 1271.

Enrico di Cornovaglia, nipote di re Enrico III d’Inghilterra, è a Viterbo, nella Chiesa di San Silvestro.

Lì, mentre sta ascoltando la messa, troverà la morte…

Oggi, accanto a quella stessa Chiesa, sorge raccolto giardino privato, quello che accoglie il B&B A Piazza del Gesù dal quale godere della vista di uno dei luoghi di passaggio più esteti di Viterbo, il Sacrario, con il panorama sulla Valle di Faul e la Cupola della Chiesa della Trinità. Un luogo che si trova nel cuore più ancestrale della città, raccolto nel verde e che dà la possibilità di tornare in contatto con quella serenità verde che l’urbana vita frettolosa spesso ci porta via.

Nel precedente appuntamento da Piazza del Plebiscito ci siamo detti che Viterbo all’alba dell’anno 1000 è una florida cittadina, libero comune, che sta velocemente diventando una potenza politica importante, la cui economia -e la cui popolazione- cresce velocemente.

Piazza del Plebiscito sorse proprio per questo motivo, per venire incontro a questo bisogno di un luogo adatto nel quale accentrare i luoghi nei quali veniva (e viene) esercitato il potere temporale.

Prima di ciò però i pubblici magistrati che amministrava il potere si affacciavano dai palazzi istituzionali concentrati in Piazza San Silvestro.

Ed è proprio qui che ci troviamo oggi, in questa che è una delle piazze più caratteristiche e armoniche della nostra città; qui si trova la Torre del Borgognone, la Chiesa che fu luogo di un fatto di sangue di cui ebbe a parlare Dante della Commedia ed infine il raccolto giardino privato della famiglia Ascenzi, che guarda da vicino Colle del Duomo la spianata del Sacrario. C’è molta carne al fuoco, molto da raccontare: iniziamo con ordine.

La vista su Piazza del Gesù è celata, per chi arriva da Piazza del Plebiscito tramite Via Sal Lorenzo dalla poderosa Torre del Borgognone.

Molte torri sorsero a Viterbo a partire dalla seconda metà del XI secolo, inserite all’interno dei complessi abitativi o isolate. Inizialmente le torri avevano una funzione difensiva, ergendosi alte sui borghi in continua espansione che si erano formati attorno al nucleo più antico della città.

Numerose erano le torri che cingevano il quartiere San pellegrino; la zona, posta al di fuori della fortezza del castello, necessitava infatti di maggiore protezione.

Con il passare dei secoli le torri acquisirono importanza crescente, come testimoniato dagli Statuti Cittadini della metà del Duecento. Ed anche dopo i cambiamenti socio-politici dei secoli successivi, che determinarono in parte l’abbandono o la distruzione di alcuni torri, esse furono riutilizzate come parte integrante delle abitazioni vicine. Queste modifiche elevarono la torre in un vero e proprio status symbol per le famiglie più in vista, emblema del potere della casata che vi risiedeva e segno evidente dell’accrescimento del prestigio delle famiglie borghesi.

La Torre del Borgognone ha una storia molto particolare. L’importanza della torre è attestata dal fatto che, alla sua base, era segnata la lunghezza del piede di un certo Messer Angelo Borgognone, che servì da parametro per le misure lineari del Comune. L’impronta, risalente al XIII secolo, risulta oggi tanto rovinata da non permettere di stabilire con esattezza la sua misura, in via approssimativa sembrerebbe comunque potersi calcolare in circa 30 cm.

Segno del prestigio che ricopriva la torre è racchiuso in una cronaca del 1230, in cui si narra che quando i viterbesi sconfissero Toscanella, le chiavi della cittadina sopraffatta furono esposte proprio sulla torre di Galino Borgognone. Ma è tempo ora di conoscere questa bellissima piazzetta ed un po’ della sua storia.

Ci sarà ora forse un pochina di confusione con la toponomastica. Abbiamo infatti iniziato col dire che questa Piazza erano conosciuta come Piazza di San Silvestro. Ebbene, questo era il nome antico di questo slargo, mutuato dalla Chiesa omonima che la chiude sullo sfondo.  Come due linee intersecate i nomi di chiesa e piazza si incrociano tra loro, tant’è vero che oggi per molti la Chiesa è “del Gesù”.

Come già detto la piazza fu la prima sede delle magistrature cittadine quando, alla fine dell’XI secolo, Viterbo si eresse a libero Comune. Dei modesti edifici in cui si svolse la vita amministrativa e politica del comune nella sua prima fase nulla è rimasto. Singolare è la storia della fontana posta al centro; essa risale al XVI secolo ma si trovava in precedenza in un monastero non più esistente quello di San Domenico situato tra Piazza Fontana Grande e Porta Romana. È nel 1922 il consiglio comunale ne decise la restaurazione e la traslazione. È quindi “solo” da meno di un secolo che la fontana è qui ad impreziosire questa bellissima piazza.

Siamo però ormai arrivati alla vera chicca: alle mie spalle vedete la facciata della Chiesa di San Silvestro, quella nella quale avvenne il delitto che ispirò a Dante, nel canto XII dell’Inferno, la terzina “Mostrocci un’ombra da l’un canto sola, dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio lo cor che ‘n su Tamisi ancor si cola».

È il 13 marzo del 1271.

Enrico di Cornovaglia, nipote di re Enrico III d’Inghilterra, è a Viterbo, facente parte di una delegazione di nobili che doveva scortare il ritorno in Francia la salma del re crociato Luigi IX, morto in Tunisia. I componenti del corteo, guidati dal re di Francia Filippo III e da Carlo d’Angiò, decisero di sostare alcuni giorni nella città, la nostra, che è luogo -ormai da tempo-  di quello che sarà ricordato come primo e più lungo conclave della storia della Chiesa.

Ci sarebbe ora da fare un’excursus su come fu proprio a Viterbo che nacque il Conclave, quando i cittadini ormai esausti- chiusero a chiave (cum clave appunto) i cardinali assisi per eleggere il successore di Clemente IV. Ma questa è storia nota ai più quindi non soffermiamoci troppo.

Dicevo, Enrico di Cornovaglia, quel 13 di marzo, è sui banchi di questa Chiesa ad assistere alla messa insieme ad altri nobili.  È il momento apicale della celebrazione, quello dell’ostensione dell’ostia, quando il sacro silenzio del momento viene bruscamente interrotto da una schiera di armati a seguito dei fratelli Montfort che al grido di “traditore Enrico, ora non ci sfuggirai” uccidono il principe inglese con svariati fendenti di spada e con esso due chierici che si erano frapposti a mo di scudo tra vittima e carnefici.

Chi sono i fratelli De Monfort? Sono Simone e Guido, nobili inglesi, che nutrivano da tempo intenti vendicativi contro Enrico.

L’antefatto dal quale scaturisce questo odio cieco è la Battaglia di Evesham, considerata come la fine dell’epoca della cavalleria in Inghilterra: fino a quel momento infatti raramente i nobili erano stati uccisi in battaglia

Su quel campo di battaglia a morirne, di nobili furono ben due invece: Simone V di Leicester ed un suo fratello. Padre e zio quindi degli assassini di Enrico.

Dopo l’assassinio, mentre i Monfort di apprestavano ad abbandonare il luogo del misfatto un cavaliere del loro seguito li invitò ad una ancor più crudele vendetta ricordando loro che il corpo del apdre era stato trascinato nel fango e straziato dopo la morte ad Evenshaw: Guido e Simone rientrarono allora in chiesa, afferrarono il cadavere di enrico per i capelli, lo trascinarono fuori  e lo fecero a pezzi.

Ed è qui che si ritorna alle terzina dantesca, che vede un dannato innominato – ma era inutile farne il nome per un lettore dell’epoca, tale era la gravità del gesto da essere risaputo in tutta la nazione- imemrso fino al collo nel sangue che ribolle nella ceerchia dei violenti contro il prossimo. È guido, un’anima empia e sola tra gli empi, un’ombra da l’un canto sola, isolato anche dagli altri peccatori per l’enormità del crimine commesso in un luogo consacrato e durante la celebrazione della messa.

Di nuovo, lo cor che ‘n su Tamigi ancor si cola è quello invece di Enrico, il cui cuore fu collocato in uan teca d’oro e posto “in su una colonna in capo del ponte di Londra sul Tamigi”.

Questa lapide, ricorda questo triste episodio. E proprio qui, confinante con la Chiesa, troviamo il piccolo giardino della famiglia Ascenzi, che ci ha concesso il privilegio di poter entrare e mostrarvi il bel panorama sulla piana del Sacrario;

Una piccola parte del giardino del B&B a Piazza del Gesù. Puoi cliccare sul nome per saperne di più 🙂

Il giardino della famiglia Ascenzi è un giardino privato, facente parte della proprietà che ospita anche un bellissimo B&B. Non c’è molta documentazione storica ma possiamo pensare che probabilmente questo piccolo pezzo di terra facesse parte dei possedimenti dell’attigua chiesa di cui forse era l’orto. Il giardino è ancora oggi sapientemente diviso in due zone, la prima curata come giardino mentre la seconda, quella più in basso verso la strada, è tutt’oggi produttiva, con una vigna dalla quale la famiglia riesce a ricavare dell’ottimo vino.

Questo è un giardino che ci fa pensare ad Epicuro, per il quale il piacere è dunque, principio (arche) e fine (telos) della vita felice, in quanto è il bene fondamentale e naturalmente congenito per l’essere vivente, ma esso non degenera mai in puro e semplice edonismo, in quanto consiste nella conquista di quella condizione “beata” caratterizzata dall’assenza di dolore nel corpo (aponia) e di turbamenti nell’anima (ataraxia). conquista non a caso, proprio perché il raggiungimento di un tale stato richiede ripetuto esercizio, nonché educazione all’ascolto di una voce cui noi prestiamo scarsamente attenzione: la voce incorrotta e incontaminata della natura, la quale, ben prima che facciamo ricorso alla ragione, ci indica inconfutabilmente ciò che è buono e qual è il fine ultimo che dobbiamo perseguire. In tal senso, il giardino rappresenta, per Epicuro, in posto ideale in cui far sorgere la sua scuola, proprio in quanto «luogo […] della cura amorevole per tutto ciò che la natura offre, per le piante, i fiori, i colori, i legumi, la frutta – cose semplici ma che rendono lieti». Attraverso un’educazione di tipo ecologico, era proprio nel giardino che l’anima umana «riscopriva il suo essenziale rapporto con la materia», per cui il più importante insegnamento che la coltivazione di esso impartiva era che «la vita – in tutte le sue forme – è intrinsecamente mortale, e che l’anima umana condivide lo stesso destino di qualsiasi cosa cresca e perisca sopra e dentro la terra».

Un piccolo giardino urbano quindi, dal quale godere della vista di uno dei luoghi di passaggio più esteti di Viterbo, il sacrario, con il panorama sulla Valle di Faul e la Cupola della Chiesa della Trinità. Un luogo che si trova nel cuore più ancestrale della città, raccolto nel verde e che dà la possibilità di tornare in contatto con quella serenità verde che l’urbana vita frettolosa spesso ci porta via. È proprio da laggiù, da quella Cupola che vedete all’orizzonte, che continuerà il nostro racconto dei giardini della Città dei Papi. La prossima volta saremo nella Chiesa della trinità, che custodisce un prezioso orto curato e produttivo, che sembrerà quasi di uscire dal tempo e dallo spazio per tornare nelle Viterbo Medievale che fu. Alla prossima!

Anonimo

Scritto da:

Viola Vagnoni

Nella vita vorrei fare tre cose: dormire, mangiare e vedere/leggere fiction.
Se però mi trovate qui vuol dire che ne ho aggiunta una quarta ovverosia scrivicchiare.
Mi pare lapalissiano che non volevo farlo ma la vita è per la maggior parte composta da cose che non si vogliono fare.
Ci sono poi state anche altre aggiunte fastidiose alla sacra triade: una laurea in filologia moderna, un lavoro a tempo pieno, una casa da gestire (male), la fantasticheria buffa di voler fare la professorona.
Ma chi me lo fa fare di alzarmi la mattina, guardate.