“Mi piace quando vieni a sederti qui, ai piedi delle mie radici, e alzi lo sguardo verso i miei rami nodosi. Mi piace quando ascolti i miei racconti, lo hai fatto spesso nel corso di quel tempo che voi umani chiamate anni. Ma forse non ti ho detto mai quanto mi piaccia giocare con la brezza, quando si infila leggera tra le mie foglie argentate e le solletica. Non ti ho detto mai quanto mi piaccia ascoltare il canto degli uccelli all’alba, mentre le nebbie si sollevano dai campi. Non ti ho ancora detto tante cose, e forse non farò in tempo a raccontartele.

Oggi ti parlerò del contadino, e di come suo nonno mi piantò. Ma prima si era dovuto indebitare per comprare la terra dove siamo ora. L’aveva voluta con tutte le sue forze, perché nella sua fantasia aveva già progettato un bell’oliveto, di quelli che sostentano le famiglie per generazioni. Il nonno mi comprò, insieme ai miei fratelli, e scelse per me una bella dimora. Le sue mani sapienti accostarono la migliore terra alle mie radici. Quando ebbe finito, si mise a guardare la sua opera, pensieroso. Sapeva che doveva attendere il corso di molte stagioni, prima di ottenere il frutto delle sue fatiche. Il tempo e la perseveranza sarebbero stati i suoi migliori alleati.

foto tratta dal sito www.pianeta.it

Mentre noi crescevamo tranquilli, suo figlio prese un nuovo prestito in banca per comprare un trattore. Toglievano le frasche e tenevano il terreno pulito e ordinato. E quando fummo più grandicelli, tagliavano i germogli che ci crescevano ai piedi. Finalmente arrivò il momento della prima colta: le olive non erano molte, ma erano di ottima qualità. Quella sera si festeggiò con il vino di casa. Non andò sempre bene: certe primavere furono crudeli, e la grandine ci prese a sassate distruggendo i nostri germogli. Certe primavere pioveva per settimane, e quando tornava a splendere il sole le mosche venivano a pungere i nostri frutti acerbi, facendoli ammalare. Quelle volte le olive erano talmente poche che non servivano nemmeno a ripagare il costo del concime. Il contadino, che era diventato un ragazzone forte, si chiudeva nel magazzino degli attrezzi e dava i pugni contro i muri. Poi ripensava al nonno, che un giorno, di fronte al mio tronco, gli aveva detto: “Il nostro mestiere è fatto di pazienza, e di resistenza. Non farti spezzare mai dalle avversità, fai piuttosto come quest’albero”. E lui non si faceva spezzare, e insegnava al figlio ragazzino i segreti della terra.

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Passarono le stagioni, come un carosello colorato e troppo veloce. Il contadino, ormai cresciuto, continuava il mestiere di suo nonno e di suo padre. Teneva in ordine il terreno, potava e concimava, portava il trattore dal meccanico, e quando arrivava la fine di novembre, comprava i fusti, preparava teli, scale, rastrelli e macchinette, e faceva la colta. Riempito il vecchio trattore con i sacchi di olive, andava al frantoio e aspettava tutta la notte per vedere il frutto delle sue fatiche. E mentre aspettava, anno dopo anno, a volte si chiedeva se ne valesse ancora la pena.

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Allora veniva qui, ai miei piedi, dove sei tu ora. E ripensava al padre, che si era spezzato la schiena per quell’oliveto. Al nonno, indomabile e forte come un olivo. Al rendimento sempre più misero rispetto alle spese, che invece aumentavano. Guardava le file ordinate di olivi e gli veniva un groppo in gola. Una sera, al bar, incontrò un conoscente, che gli parlò di una nuova coltura. “Lascia perdere gli olivi, sono i noccioli che devi piantare. Le nocciole sono il futuro della nostra terra!”. Il contadino sorrise e scosse la testa. Anche il conoscente sorrise: era solo una questione di tempo. I grandi guadagni che promettevano le nocciole avrebbero scalzato le sue assurde romanticherie.

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Lo so che queste cose già le sapevi. Le hai assorbite fin da bambino, con il latte di tua madre. Che è stanca di vedere sempre il contadino, tuo padre, preoccupato e triste. Anch’io, forse, sono stanco. Ho voglia di abbandonarmi alla brezza, ricongiungere il mio spirito con l’infinito mistero delle cose. Presto verranno con le motoseghe, e presto il mio legno ti scalderà quando arriverà il gelo. Presto vedrai al mio posto un giovane nocciolo, che non ha colpa di tutto ciò. Ti prego, porta sempre con te il mio ricordo, e il ricordo di come eravate, e non siete più. Ricordami e se sentirai la mia mancanza, potrai sempre ritrovarmi nel canto degli uccelli, all’alba”.  

La coltivazione dell’olivo nella nostra Tuscia ha origini molto remote: i reperti archeologici testimoniano la presenza della coltura già nel sesto secolo a.C., portata dagli Etruschi che l’avevano appresa dai Greci e dai Fenici. L’olio evo delle campagne viterbesi è uno dei migliori d’Italia, dal sapore equilibrato, delicato e deciso allo stesso tempo, che riceve ogni anno svariati riconoscimenti e premi internazionali. Il merito è senz’altro per la posizione della Tuscia, tra il mar Tirreno e gli Appennini, per il terreno di origine vulcanica, ricco di sostanze nutritive. Ma il merito è senz’altro anche la sapienza antica, tramandatasi di generazione in generazione, che gestisce la coltivazione, la raccolta e la molitura.

La coltivazione dell’olivo nella Tuscia è in pericolo: a Gallese stanno abbattendo 134 alberi di olivo con il consenso della Regione Lazio e il parere contrario del Comune. Altre 30 piante faranno la stessa fine in una località diversa, sempre con il consenso della Regione. Al loro posto, come è scritto nella determina della Regione, sarà piantata «altra coltura» che al 99 per cento dovrebbe essere di nocciole. La biodiversità e la coltivazione dell’olivo stanno scomparendo, sotto i colpi di un clima sempre più impazzito e la concorrenza spietata delle nocciole. La cultura dell’olivo sta tramontando, con la sapienza antica fondata sul tempo e sulla perseveranza. Al suo posto, un futuro dai contorni ancora incerti.

Anonimo

Scritto da:

Donatella Agostini

Imparare cose nuove è il mio filo conduttore, darmi sempre nuovi obiettivi la mia caratteristica fondamentale. Valorizzare la terra in cui vivo è il mio progetto attuale.