C’è una Viterbo evidente: è quella che si percorre ogni giorno in macchina, fatta di stessi identici percorsi, per andare a lavoro, per accompagnare i figli a scuola, per fare la spesa. Ci immergiamo nell’inferno della fretta e della ricerca di un parcheggio, nella fila chilometrica ad una rotonda: pedine di un virtuale gioco di ruolo, in cui a vincere è soltanto chi riesce ad intravedere la Viterbo vera, quella nascosta allo sguardo frettoloso della routine. Una città invisibile ma reale, fatta di ricordi e di parole, fatta di memoria, che va preservata.

È la memoria a raccontarci la storia di oggi: ci parla di una chiesa che chiesa non è più: nel tempo, è diventata qualcos’altro, e poi anche questa nuova veste le è stata strappata, lasciandola nuda e in attesa di un nuovo significato.Si trova a piazza Fontana Grande, e la sua facciata campeggia – pressoché ignorata – come sfondo alla maestosa fontana.

Foto di Gianluca Braconcini

È dal Seicento che è lì, quando fu eretta e intitolata ai Santi Giuseppe e Teresa. Le famiglie nobili del tempo finanziarono la bella facciata barocca e la cupola ottagonale. All’interno vi erano navate e cappelle, dove artisti viterbesi di livello dipinsero opere pregevoli. Giovanni Francesco Romanelli vi dipinse l’Annunciazione, e nel 1662 vi trovò sepoltura. Passò il tempo, e all’inizio dell’Ottocento vi fu trasferito il Seminario, che prese possesso della chiesa e dell’annesso convento. Il 12 settembre 1870 tutto il Lazio venne inglobato nel nuovo Regno d’Italia: anche Viterbo, che perse temporaneamente la qualifica di capoluogo. Nell’entusiasmo generale di un’unificazione a lungo sognata e sperata, la legge divina sembrò fare un passo indietro a favore della legge umana. Nel 1873 la chiesa dei SS. Giuseppe e Teresa fu sconsacrata e il suo assetto sconvolto, per diventare un’Aula di Giustizia. Al posto delle navate, archivi e depositi giudiziari. Niente più presbiterio, ma gli scranni della Corte. Nel lato destro del transetto, al posto della Annunciazione di Romanelli, una gabbia metallica per contenere gli imputati.

Da Viterbo la legge umana si abbatté con forza su bande di briganti e malfattori. Nel 1911 vi si celebrò un maxi-processo contro alcuni camorristi, per la morte di Gennaro Cuocolo e della moglie Maria avvenuta a Torre del Greco cinque anni prima. Il processo Cuocolo passò alla storia come poco chiaro e probabilmente irregolare.

Illustrazione del processo Cuocolo (1911)

Nel 1947, a guerra finita e a Repubblica nata, avvenne la strage di Portella della Ginestra, vicino Palermo, considerata la madre di tutte le stragi che nel tempo insanguinarono il nostro Paese. La mattina del Primo Maggio Salvatore Giuliano e i suoi banditi spararono sulla folla intervenuta ad una manifestazione per chiedere migliori condizioni di lavoro: uccisero undici persone, tra cui tre bambini. Fu nell’ex chiesa viterbese che nel 1950 la giustizia arrivò ai responsabili, fermandosi però solo a quelli materiali e lasciando i mandanti alla fumosità delle congetture.

La banda Giuliano al processo di Viterbo (1950)

Negli anni Sessanta, in pieno innamoramento tra Viterbo e il cinema, furono numerose le pellicole che utilizzarono la famigerata “gabbia”: Divorzio all’italiana di Pietro Germi, Salvatore Giuliano di Francesco Rosi.

Nel 2005 il Tribunale viterbese venne accolto nei nuovi locali del Riello, e sulla non più-chiesa non più-tribunale scese il silenzio e la dimenticanza. L’ultima veste le fu strappata, e da allora questo edificio non sa più chi è. La gabbia di metallo accoglie soltanto granelli di polvere che volteggiano su qualche coraggioso raggio di luce.

Nel 2017 un uomo apre il portone, e si sofferma a guardare i locali nella penombra. È un artista, si chiama Marco Zappa, e gli artisti sanno vedere oltre le apparenze materiali. Sanno intravedere le città invisibili. Marco legge la frase che ancora campeggia: “La legge è uguale per tutti”. Ed è colpito dalla singolare coincidenza di un luogo dove il giudizio divino ha lasciato il posto al giudizio umano. L’artista decide che questo è il sito giusto per un grande progetto pittorico, che darà una nuova, ennesima veste all’edificio, e darà alla città altre opportunità, altri desideri, altri ricordi.

Foto di Luciano Proietti

Tre enormi tele, a rappresentare il Paradiso, il Purgatorio, l’Inferno: il “Giudizio Finale”, che arriverà oltre i tempi, oltre le vicissitudini terrene, oltre la legge umana. Le figure umane ritratte si muovono in un turbine dinamico, tra i colori accesi del Paradiso, e il grigio argenteo del Purgatorio. Nella mente dell’artista, già trova forma il futuro Inferno, che sarà spettrale, livido, senza più speranza.

Marco Zappa, Giudizio Finale: Il Paradiso. Foto di Luciano Proietti

Marco Zappa, Giudizio Finale: Il Purgatorio. Foto di Luciano Proietti

Nel frattempo, citando Italo Calvino, noi viventi continuiamo a vivere nel nostro quotidiano inferno, cercando di accettarlo e diventandone parte, tra disattenzione e noncuranza.

Qualcuno però si sforza di saper riconoscere ciò che non è inferno, come la memoria, la cultura e l’arte: e allora cerca di farlo durare, e di dargli spazio. E questo luogo informe e anonimo, ma ricco di storia e di ricordi, potrebbe ottenere un’ennesima e speriamo ultima veste: quella di sede di esposizioni, di mostre, di conferenze. Quella di sede della cultura e della bellezza.

La foto in evidenza è di Orsetta Fazioli

Anonimo

Scritto da:

Donatella Agostini

Imparare cose nuove è il mio filo conduttore, darmi sempre nuovi obiettivi la mia caratteristica fondamentale. Valorizzare la terra in cui vivo è il mio progetto attuale.