Oggi la zona tra Capalbio e l’alto Viterbese di Valentano, Gradoli e Castro è la Maremma del turismo, in bilico tra le spiagge finto-selvagge e la ruralità glamour. Ma nell’Ottocento dello Stato Pontificio e del granducato di Toscana, la Maremma era terra di confine tra civiltà e degrado, tra ordine e malavita. Era la terra di Domenico Tiburzi e dei suoi briganti.

Strade disastrate e fatiscenti isolavano un territorio poverissimo e abbandonato dallo Stato, dove la malaria delle paludi teneva lontane le autorità e i posti di polizia. La terra coltivabile, strappata alle fitte macchie mediterranee, era in mano a pochi privilegiati, e lavorata da nugoli di miseri contadini sfruttati e sottopagati. Fu in questa zona abbandonata a sé stessa che alcuni uomini decisero di oltrepassare il confine della legalità e di diventare dei fuorilegge. Tra di essi si annidavano criminali comuni, ma il brigantaggio maremmano era soprattutto sopravvivenza: una presa di posizione disperata nei confronti delle angherie e dei soprusi delle autorità, una ribellione agli stenti e alle privazioni.

Domenico Tiburzi, detto “il re del Lamone”, era maremmano di Cellere, dove era nato nel 1836. Analfabeta, povero bracciante, da ragazzo era stato sorpreso a raccogliere un po’ di foraggio per gli animali nella tenuta del marchese Guglielmi, e l’inflessibile guardiano gli aveva affibbiato la spropositata multa di 20 lire. In un impeto di rabbia Tiburzi lo aveva ucciso, diventando per sempre un fuorilegge.

Dopo essere stato arrestato e condannato a 18 anni di galera nel carcere di Corneto, l’attuale Tarquinia, era riuscito ad evadere e a ripararsi nelle fitte macchie del Castrense. Iniziò così la malavita di Domenichino, tra omicidi, rapine ed estorsioni, sempre sotto il segno di un suo improbabile e personalissimo codice d’onore. Tiburzi puniva senza pietà chi ne infangava il nome facendo rapine a nome suo; uccideva chi era violento con le donne o si macchiava di inutili crudeltà. Ma soprattutto Tiburzi era diventato una sorta di acclamato Robin Hood: il ricavato del “pizzo” che gli dovevano corrispondere i ricchi proprietari terrieri, pena l’incendio delle tenute, veniva da lui devoluto alle famiglie più povere ormai ridotte alla fame, e a quelle dei briganti caduti sul campo.

La morte per Tiburzi arrivò sotto le spoglie di un ambizioso e capace carabiniere piemontese, Michele Giacheri. In una piovosa notte di ottobre del 1896 Tiburzi e il suo fido luogotenente Luciano Fioravanti avevano chiesto riparo e un pasto caldo a un contadino nei dintorni di Capalbio. I carabinieri con in testa il capitano Giacheri, avvertiti da un traditore, bussarono alla porta del casolare e ne scaturì un violento conflitto a fuoco. Tiburzi morì freddato da un colpo alla nuca. Il giorno dopo il re della Macchia fu fotografato in piedi, legato a una colonna romana, con in mano il suo fucile. E la foto del brigante morto, indomabile e beffardo, è l’unica immagine che resta di lui.

La Capalbio dei derelitti volle a tutti i costi un funerale religioso per il proprio paladino, malgrado il rifiuto sdegnato delle autorità civili ed ecclesiastiche. Si arrivò a un compromesso: Domenico Tiburzi fu sepolto metà in terreno consacrato; testa torace ed anima furono seppellite fuori dal cimitero. Una morte al confine, come era stata la sua vita.

la foto di Tiburzi è tratta dal sito www.maremma.name

Anonimo

Scritto da:

Donatella Agostini

Imparare cose nuove è il mio filo conduttore, darmi sempre nuovi obiettivi la mia caratteristica fondamentale. Valorizzare la terra in cui vivo è il mio progetto attuale.