Mia nonna si chiamava Elisabetta Serafini e nacque a Bagnaia nel 1934.
Ha trascorso con me meno tempo di quanto avrei voluto ma era una donna così particolare che ogni ricordo con lei l’ho ben impresso nella memoria.
Era una saltimbanca e mi faceva molto ridere, ogni momento in sua compagnia che passo in rassegna nella mia testa mi vedo a sbellicarmi dalle risate.
Quando ero piccolina il mio paese era molto diverso; c’era questa pletora di donne capeggiate –secondo me- proprio dalla nonna Betta che trascorrevano i pomeriggi sulla sediola in mezzo alla via e parlava di cucina, di ricamo, dei nipoti e soprattutto di pettegolezzi.
Quanto hanno lavato le donne di Bagnaia al lavatoio! Ogni giorno c’era un lenzuolo da sciacquare e la vita di una compaesana da smacchiare. La nonna mi portava con sé ed io sentivo come attutite le loro voci maldicenti perché mi lasciavo assorbire dalla visione dalle mani ruvide e rugose che si arrossavano sotto l’acqua corrente gelata ed il sapone di Marsiglia.
La nonna Betta mi comprava a merenda un gelato da 50 lire. Solo fiordilatte per tenere i dentini bianchi. Mi cucinava ogni giorno i cannelloni e gli agnolotti e solo dopo molti anni di lodi sperticate per il suo essere un’ottima cuoca ho scoperto che acquistava tutto alla pasta all’uovo. Il piatto che le veniva meglio era l’uovo all’occhio di bue. Perfetto, delizioso, purtroppo irriproducibile.
Mi teneva ore alla finestra ad osservare il Montecchio col cannocchiale mentre mi narrava le sue imprese di bambina sotto la guerra che si nascondeva nei monti e si nutriva di maiali morti di una malattia che lei chiamava “marrosso”.
Non pretendeva mai che dalle 14 alle 16 fosse rispettata “l’ora del silenzio” perché a me il pomeriggio non piaceva dormire, lo odiavo. Mi permetteva di rimanere con lei a giocare in sala e mi faceva ridere perché parlava quel bagnaiolo schietto di chi non ha timore o vergogna di non conoscere l’italiano –io questo terrore l’ho sempre patito- e io piccola noiosa cinquenne la correggevo ma a lei non interessava nulla, continuava a parlare la sua lingua madre e la infarciva di un sacco di parolacce per rendere più colorito il tutto.
Dopo cena veniva a casa nostra e si accomodava su una sedia che era solo la sua e mi guardava ballare nel salotto sebbene già all’epoca fosse evidente la mia incapacità di coordinare i movimenti degli arti. Mi diceva che ero bravissima, che Carla Fracci “me faceva na pippa”. Non lo sapevo chi fosse Carla Fracci ma per dire una frase forte del genere dovevo essere davvero brava.
Mi insegnava canzonette e filastrocche e poesiole e poi voleva che le recitassi davanti ad un uditorio composto di vecchietti dentrani che mi incensavano per la mia lingua fina e memoria pronta.
Più di tutti ha cercato d’insegnarmi la leggerezza e la briosità, a non prendere nulla sul serio, ridere con incoscienza. Poi se n’è andata in punta di piedi una notte, quando ancora non avevo imparato molto di ciò. Non le somiglio forse per questo.